di Laura Panetti
“Panni Stesi. Un racconto di azioni qualsiasi”
Gli anni Sessanta e poi soprattutto Settanta sono stati un periodo caratterizzato dalla necessità di rottura con il passato, in cui sono stati messe in crisi tutte le costruzioni d’identità e i punti di vista assoluti, sia maschili che femminili. La famiglia, il lavoro e la casa vengono attaccati perché si ricercavano autonomia e libertà delle donne, pari opportunità e diritti, mentre si faceva largo un desiderio di sperimentazione e ricerca che investiva anche le forme artistiche.
Sono anni in cui le artiste, partendo da una condizione di marginalità, rivendicano ad alta voce il proprio ruolo, riescono a far considerare le loro storie, le loro particolari esperienze artistiche e di vita, e portano nel campo dell’arte un punto di vista sessuato, consapevole della differenza di genere, fuori dalle cornici del potere e della cultura dominante, con una attenzione rinnovata alla sessualità.
Così come è stato per le artiste degli anni Sessanta e Settanta, nelle opere Panni Stesi di Federica Scoppa ritroviamo la stessa concezione, ovvero quella di un’artista che comincia a considerare il suo ruolo di artista e di donna, invitando il pubblico a una presa di coscienza consapevole della diversa condizione sociale di donne e uomini determinata dalla struttura culturale patriarcale che il femminismo, in oltre 100 anni e nonostante tutti i passi avanti fatti, non è ancora riuscita a scardinare.
Negli anni Sessanta e Settanta l’attenzione data al corpo, alla sua gestualità a volte anche banale, ha portato le artiste a considerare l’arte fuori dalle regole del mercato e del successo, non partecipando a mostre in gallerie ma scegliendo di realizzare “azioni” in luoghi non istituzionali al di fuori del sistema dell’arte. Per esemplificare come il quotidiano – fatto di ripetitivo lavoro di cura – compenetra il lavoro della donna artista, Federica Scoppa trasferisce la sua “azione” in galleria, spazio intimo che richiama quello domestico, e stende i suoi panni – il ripetersi di lavatrici che mondano le tracce del vivere – in forma di quadri su un filo teso al muro, bloccati dalla morsa minuta e tenace delle mollette.
Nei Panni Stesi di Federica Scoppa troviamo lo stesso significato che possiamo trovare nell’azione compiuta dalle performance degli anni Settanta: proprio come allora, le tele così simili le une alle altre “stese ad asciugare” da Federica Scoppa mettono in evidenza azioni di uso comune che perdono la loro funzione principale per acquistarne un senso nuovo, quasi al pari del ready made.
Arthur Danto, noto critico d’arte, nel suo libro La trasfigurazione del banale del 1981 sostiene che il banale non è mai qualsiasi ma ha sempre una sua storia: così il gesto di stendere i panni non è mai banale ma ha appunto una sua storia come le tante storie dell’arte che ritroviamo e che ci dicono che dobbiamo allenare la mente a pensare a una diversa prospettiva, riconoscere un passaggio nelle pratiche artistiche che consiste nella smaterializzazione del gesto (lo stendere i panni) per arrivare alla rimaterializzazione del significato della cosa banale o ordinaria. L’artista affronta il banale sfidando il canone e la norma per far capire il ruolo della donna, toccando le sfere del sommerso, del tabù, delle marginalità sia interiori che sociali. Perché non c’è nulla di più “invisibile”, dato per scontato, banale appunto, del riprodurre giorno per giorno una condizione di benessere – una casa pulita, panni freschi di bucato, il pranzo in tavola all’ora giusta – che occupa tempo e pensieri della vita della maggior parte delle donne.
Contrasta l’egemonia della classica tela, riprodotta in decine di pezzi a colori cangianti appesi ai fili che corrono sul muro della galleria, senza la “classica” cornice: l’artista sfida così la storia delle forme dell’arte tradizionali per raccontare la storia meno nota, la non-Storia quasi, di donne non-note, senza le quali la Storia non sarebbe.
di Cristiana Scoppa
“Panni stesi. Ovvero della fatica dell’essere artistE”
ArtistE. La E maiuscola alla fine è voluta, perché è ancora troppo minoritaria seppure fulgida la presenza delle donne nell’arte. Una presenza che fatica a farsi soggettività, almeno nel linguaggio. Ancora troppo spesso infatti si legge “donna artista”, proprio come “donna poliziotto” e non semplicemente “poliziotta”, “donna medico” e non agilmente “medica”. Artista allora è solo un aggettivo del più pregnante e insieme generico “donna”, funzionale ad assicurarsi che chi legge abbia ben chiaro che stiamo parlando di esseri umani di sesso femminile.
Sono, le “donne artiste”, donne che hanno osato cimentarsi con una pratica nella quale sono giunte seconde, quando già erano stati esseri umani di sesso maschile a dettare regole e forme, a stabilire modalità e ritmi di produzione, a predisporre gesti e contenuti. Ma esiste una differenza nel fare arte di uomini e donne?
Questa domanda aleggia nella storia e nella critica d’arte da quando ci si è “accorti” che tra gli artisti si contavano anche delle donne. Di questa possibile differenza di genere Federica Scoppa rivela con i Panni stesi un elemento spesso invisibile, che fa capolino nei racconti di tutte o quasi le artiste, soprattutto se madri. Un elemento riassumibile nella “cura”, o meglio in quell’invisibile – all’occhio altrui e segnatamente all’occhio maschile – e ripetitivo “lavoro di cura” che quasi sempre – stando ai dati sull’uso del tempo – tocca alle donne.
Lavare i panni, o con accezione più contemporanea “fare le lavatrici”, non “la lavatrice”, ma spesso 3, 4, 5 lavatrici di seguito, “portare giù” i panni sporchi e poi “riportare su” quelli puliti, e stenderli belli tesi e distanziati per evitare di stirarli, un occhio al cielo per calcolare se faranno in tempo ad asciugarsi prima che piova, per poi ritirarli, ripiegarli e riporli in armadi e cassetti. Ore di lavoro. Sempre uguali. Colorate. E mentre le mani operose spianano lini e cotoni e pizzicano mollette, ecco fare capolino nella mente dell’artista le forme variopinte ed evanescenti nelle quali la ripetitività quotidiana si trasfigura, annega e riaffiora, si incaglia e contorce, a volte cede arrendevole a un flusso inarrestabile e cangiante.
Nei Panni stesi sul filo, nel “lavoro di cura” quotidiano che sottrae tempo per sé a tutte le donne e che ancora non riesce a trovare una paritaria distribuzione nelle coppie, la “donna artista” Federica Scoppa stende ad asciugare desideri, ispirazioni, estro. Per ricordare a noi tutti/e che dietro ogni opera creata da una “donna artista” c’è molta più fatica, e una fatica molto diversa, di quella raccontata dal puro gesto tecnico della creazione.